Le strade di Santo Antao sono fatte di sampietrini. Anche quelle più piccole, snodate in stretti tornanti che serpeggiano tra valli strette e montagne affilate. C’è una via che corre a nord-ovest e unisce villaggi di poche case, abbarbicate sotto alle scogliere che si stagliano sull’acqua. È una mulattiera scavata nella roccia a strapiombo sul frastuono dell’oceano. Gli corre sopra, a volo d’uccello, scendendo a volte fino alla spiaggia di sassi. Costruita tutta a ciottoli e muri a secco, in alcuni punti si avvita in una serie di tornanti che si ritorcono su sé stessi come il corpo di un serpente. A volte, le onde trascinate dal vento mandano spruzzi decine di metri più in alto e mi riempiono gli occhiali di minuscole gocce sature di salsedine. È il trekking sull’oceano che ho sempre sognato. A dire il vero, neanche osavo immaginarlo, perché non è soltanto un breve passaggio, un punto panoramico a sbalzo sul mare dove scatti la foto da cartolina, ma una strada lunga circa 15 chilometri. Ogni volta che gira dietro a un promontorio, quando puoi pensare che il meglio sia ormai passato, ti regala ancora una volta nuovi scorci da brivido. Per brevi tratti si allontana dalla costa e si addentra un anfratto dove l’oceano sparisce alla vista. Lì il cammino improvvisamente scorre in un ambiente di montagna, sovrastato da rocce vulcaniche nere come la pece. In queste piccole valli, con un lavoro apparentemente impossibile, l’uomo ha domato la natura, trasformato pendii scoscesi in un mosaico di terrazze per coltivare il cibo anche per le isole vicine, dove per invocare la pioggia si sono sempre fatte danze e riti propiziatori.
Gli alisei intanto hanno preso a soffiare dalla parte sbagliata, virando troppo verso est, portando sull’arcipelago il più terribile dei venti, la lestada. Qualcuno lo ha descritto come un cielo sanguinante, dal quale soffia una massa di bruma secca che divora i campi interi, corrodendo i germogli, le foglie e le piante intere. Alla fine, quando passa, nell’aria rimane soltanto odore di sementi arrostite. È un vento di sabbia, portata direttamente dal deserto del Sahara della Mauritania, lontana centinaia di chilometri. Il panorama è ridotto a qualche centinaio di metri, oltre il quale lo sguardo si perde in una strana nebbia asciutta. Verso sera, il paesaggio diventa spettrale. Il sole scompare in un tramonto mancato, dissolto ancora prima di nascere. Ma il cammino è talmente grandioso che la tempesta di sabbia non lo intacca. Questa bruma secca, che gioca a nascondere l’oceano poco oltre le scogliere, in realtà forse gli dà un’aria più misteriosa e selvaggia. Arrivati alla fine, invece che proseguire subito con la tappa successiva, decidiamo di fermarci una notte, per ripercorrerlo in senso opposto, l’indomani, perché sarebbe un peccato goderselo una volta sola. E ne è valsa la pena, in ogni suo passo.
È stato un viaggio breve, intenso, di tanti chilometri e dislivelli macinati sulle gambe, accolti da gente tranquilla e onesta. Le giornate sono finite in birre, patatine fritte e piatti di aragosta di fronte al mare. Queste fotografie possono dare tutto, tranne una cosa: il soffio, forte e costante, del vento di nord est.