Viaggio in Nepal

Racconto di viaggio


Racconto di viaggio – Appunti dal Nepal

Il Macchapuchhre emerge improvvisamente dalle nuvole, stagliandosi contro il cielo mentre si tinge di rosso in un tramonto di fuoco. Una montagna maestosa, inarrivabile, mai domata dall’uomo. “Troppo difficile e pericolosa” secondo qualcuno, in realtà volutamente proibita agli scalatori di tutto il mondo, tenuta sacra per il paese. L’imponenza di quel muro di roccia e ghiaccio mi fa restare a lungo in sua contemplazione, prima che si spenga anche l’ultimo raggio di luce che illumina la vetta.
L’Himalaya regala scorci fiabeschi: dal Dhaulagiri sullo sfondo di collina di rododendri in fiore, alla colossale parete dell’Annapurna Sud che sovrasta i villaggi, alle vette più alte del pianeta sullo sfondo delle bandiere con le preghiere al vento. Ogni tappa del trekking riserva nuove sorprese, incluse le otto zampe di un enorme ragno, che forse dovrei chiamare tarantola, che presidia il bagno del lodge di montagna; un altro campeggia nella stanza, qualcuno nel corridoio.
La mattina seguente, l’alba sull’Annapurna Sud che mi guarda dall’alto dei suoi settemiladuecento metri, unita alla tazza di caffè e alla torta calda alla banana, fa dimenticare la notte insonne e mi permette di affrontare le cinque ore di salita.
La fortuna mi segue: il fiume d’acqua scaricato dal temporale arriva proprio pochi minuti dopo che ho raggiunto il lodge che mi ospita. Il giorno successivo, dopo una notte di pioggia, la catena Himalayana si scopre proprio all’alba, regalandomi panorama a 360 gradi nel punto più bello dell’intero trekking, prima di scomparire nelle nuvole. Un violento scroscio di pioggia e grandine di scatena proprio mentre mi fermo in un villaggio per il pranzo, e il sole torna a splendere per le ultime tre ore di cammino nel pomeriggio. Fortuna? Charma? O forse le bambole giapponesi (i “teru-teru-bozu”), di cui ho appreso i segreti viaggiando nel Paese del Sol Lavante, mi hanno conferito poteri soprannaturali?
In un villaggio Himalayano incorniciato da un panorama di vette da oltre ottomila metri, un falco volteggia nell’aria, si fionda sulla preda e riprende il volo tenendola con gli artigli. Il genitore della preda, un uccello minuscolo al confronto del falco, prova inutilmente a inseguirlo mentre a grandi colpi di ali diventa un puntino sempre più piccolo nel cielo.
Alle prime luci del giorno, quando la città sonnolenta non ha ancora ceduto il passo al via vai della gente, dei commercianti, e dei turisti, una donna spazza la polvere attorno ai templi della piazza principale con una scopa di paglia, mentre un uomo cammina lentamente portando in spalla una bilancia carica di piatti di terracotta, e una vacca sacra indugia in mezzo ai piccioni.
Al calare del sole i templi s’infiammano di candele di burro, mentre i monaci buddisti girano intorno agli stupa facendo ruotare le ruote della preghiera. L’odore d’incenso satura le strade e si mischia a quello delle spezie.
Arrivo a Bhaktapur e m’immergo nel capodanno nepalese; festa durante la quale polli, capre e bufali vengono decapitati, e poi arrostiti direttamente nelle strade. La folla gremisce la piazza, e un grande carro imbrattato del sangue degli animali sacrificati agli dei viene trascinato per la città. Infine, un lungo palo issato nel centro della piazza viene abbattuto con un grande tiro alla fune: il nuovo anno ha inizio.
Una doccia a lume di candela in una pensione non attrezzata contro i blackout giornalieri aggiunge un ulteriore tocco retrò a questo viaggio nel passato.
Ad ogni modo, voglio lasciare raccontare tutto ciò alle foto che ho scattato, e preferisco parlare di questo Paese da una cosa molto più terrena, e soprattutto da un punto di vista molto sentito e vissuto da ogni viaggiatore, cioè dalla strada. Viaggiare fai da te, senza trasporti organizzati con la limousine che ti viene a prendere davanti all’albergo, e senza spostamenti con voli interni, vuole dire essere sempre sulla strada: a piedi per raggiungere la pensione o la stazione, girovagando per la città o la campagna in bicicletta, su un autobus locale per spostarsi verso la tappa successiva. La strada è la costante di quasi ogni viaggio, ed è il primo elemento che mette in contatto il viaggiatore con il Paese.
E se il corso della storia d’intere nazioni è stato spesso segnato da una strada, forse il modo di guidare di una popolazione ne racconta un po’ la mentalità: gli americani perennemente controllati da telecamere e pattuglie della polizia, i sudamericani spensieratamente pericolosi, i nord-europei ligi ed efficienti, gli italiani un po’ arroganti ed esibizionisti, i mediorientali disordinati e confusionari, i giapponesi gentili, gli indonesiani fatalisti, e così via.
In Nepal lo stile di guida è folle come in tanti paesi del mondo, ma loro si preoccupano della propria incolumità. Come? Invocando a gran voce la protezione degli dei, e continuando a guidare come sciagurati.
Ogni camion esibisce grandi raffigurazioni di ogni divinità indù proprio davanti alla cabina a guardare la strada. Immagini molto colorate e curate, che trasformano i camion in piccoli templi ambulanti, per rendere grazie agli dei che proteggeranno gli autisti dal loro modo di guidare.
Gli occhi del Budda sono dipinti attorno ai fari. Su qualche autobus i fari stessi sono dipinti. Chissà, forse con gli occhi del Budda piazzati lì vicino troveranno l’illuminazione anche senza le lampadine.
Gli occhi sono sempre tre, e il terzo “dovrebbe” essere quello della saggezza.
Nel viaggio da Kathmandu a Pokhara sono seduto sul lato del fiume, e passo il viaggio più o meno ignaro di quello che succede sulla strada. Al ritorno sono seduto dall’altra parte, e in meno di 200 chilometri conto due camion spiaccicati contro la roccia, uno che si ribalta in mezzo alla strada proprio dopo avere incrociato e schivato il nostro pullman, e per finire un autobus, del tutto analogo a quello sul quale viaggio, rovesciato in una risaia. Noi passiamo indenni. Ringrazio le divinità, e sento spuntare il terzo occhio sulla fronte; non è quello della saggezza, bensì quello incollato alla strada, che guarda fuori dal finestrino e mi fa spaventare ad ogni sorpasso in mezzo ai tornanti.
Secondo la loro religione, il morire in un incidente stradale (così come, ad esempio, per un suicidio) farà reincarnare la persona in un “fantasma affamato”, cioè in un essere sempre affamato, ma con il collo stretto a tal punto da lasciare passare un solo chicco di riso alla volta. Insomma, il problema del potere morire in un incidente è piuttosto sentito.
Ai nostri occhi occidentali la loro soluzione al problema fa sorridere, ma per capirne le ragioni bisogna liberarsi dal nostro modo pragmatico di ragionare, e comprendere come sia il loro modo di affrontare la vita, scandita quotidianamente dai rituali dell’induismo. La parola “rituale” può far pensare a qualcosa di superficiale, di scaramantico, come la nostra preghiera detta di fretta la sera prima di andare a dormire, o quell’oretta passata distrattamente in chiesa, quando durante la predica si pensa al pranzo con i parenti, o alla pulizia della Mercedes parcheggiata fuori.
In Nepal è diverso. L’induismo e le sue pratiche non sono qualcosa di contorno e di cui ogni tanto ci si preoccupa per assicurarsi un posto in paradiso o sentirsi a posto con la coscienza, bensì qualcosa di completamente integrato con la vita e i pensieri della gente.
Sono gli dei che regolano la loro vita in tutti i suoi aspetti; c’è una divinità da interpellare per ogni problema quotidiano. Sembra che ci sia un tempio per abitante, e le città sono pervase da odore d’incenso e delle candele di burro che bruciano ininterrottamente.
Si fanno offerte di riso e fiori tutte la mattine, sull’uscio di casa, nei templi, sulla strada. Si fa la fila al tempio per apporsi il “tilaka” (il punto rosso sulla fronte).
In quest’ottica è comprensibile che se ci si deve proteggere da qualunque pericolo della vita la cosa più normale è interpellare gli dei. Può essere più logico dipingere la divinità sul camion piuttosto che guidare con un po’ più di raziocinio.
A Kathmandu la sera cala il sole le strade sprofondano nel buio. Le vetrine delle vie turistiche si attrezzano con delle luci a batteria che sopperiscono ai black out di corrente elettrica, che durano 16 ore al giorno. Appena si esce dalla zona turistica i fari dei motorini sono le uniche luci che illuminano la strada e le buche sparse in giro. In alcune di queste, vedo alcune persone bruciare incensi e portare offerte agli dei. Noi faremmo causa al comune dopo esserci inciampati dentro, loro lo sfruttano come nicchia riparata per farne un piccolo tempietto che lì proteggerà dalle sventure della vita.

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