Racconto di viaggio – L’invasione delle Locuste
Mi fermo ad Ambalavao qualche giorno. Non ho tempo per proseguire più a sud. O meglio, non ho più la forza e la voglia di stiparmi all’inverosimile su taxi-brousse stracarici di persone, galline e bagagli. La mia schiena chiede una pausa, dopo i tre giorni stretto nella piroga scivolando lungo il fiume, e poi rimbalzando tra le buche della strada per intere giornate, nel proseguire il mio viaggio a bordo dei minibus locali.
Le fermate degli autobus mi affascinano. Non ci sono orari, non c’è fretta di partire, ma intorno ai mezzi malandati brulica un’intensa vita.
Quando si raggiunge il quorum per partire, che vuole dire tutti i posti standard esauriti e spesso alcuni posti extra, iniziano i preparativi per caricare il mezzo. Le persone e gli animali si stipatino all’interno, mentre i bagagli sono ammassati sul tetto e legati in qualche modo.
Sono arrivato ad Ambalavao stando quasi una giornata intera su un minibus Mazda, vetusto, carico al limite di crollare sotto il proprio peso. Il mio zaino è sul tetto in mezzo a grandi sacchi di carbone, valigie, una bicicletta e un motorino. Io sono stretto tra una vecchia donna, che sgranocchia arachidi accumulando le bucce sulla gonna, e un ragazzo che come me cerca di tanto in tanto di muovere un po’ le ginocchia che puntano contro il sedile davanti. Porta una gallina chiusa in un sacchetto di plastica dal quale spunta solo la testa.
Su questi pullmini gli accessori non esistono più. Al posto dei fanali, del tachimetro, del contagiri, dell’orologio, dei comandi dell’aria condizionata e delle bocchette dell’aria, ci sono dei buchi nella plancia. Mano a mano che si sono rotti sono stati smontati. In qualche modo camminano.
L’autoradio diffonde ininterrottamente pop africano a tutto volume. Partiamo alla velocità di una bicicletta, sputando nuvole di smog alle nostre spalle. Il vecchio Mazda pare essere sul punto di esalare il suo ultimo respiro. Trema in folle, vibra in prima, sferraglia in seconda. In discesa bisogna procedere con i freni tirati per evitare di prendere troppa velocità. Per andare dritto il volante è girato a sinistra.
Partiamo come una bicicletta, e poi rallentiamo. Sosta per fare benzina, sosta per comprare i sacchettini per raccogliere il vomito di chi non sopporta le curve, sosta per mangiare, sosta per i bisogni, sosta per fare salire e scendere persone, sosta per caricare e scaricare pacchi, sosta per salutare qualcuno nei villaggi, sosta presso uno dei mille agenti polizia sparsi lungo le strade. Poi sosta per comprare canna da zucchero fresca, poi sosta perché perdiamo un sacco di carbone dal tetto, che disintegra la ruota di chi ci segue e bisogna aiutare alla riparazione, poi sosta perché ci sono troppe buche nella strada e si va a senso alterno, poi sosta per comprare nuovi sacchettini del vomito che intanto sono finiti.
Poi si va? No, sosta per parlare con l’autista del minibus che viaggia in direzione opposta, sosta per comprare frutta, verdura, frittelle, pollo, venduti direttamente attraverso i finestrini dai venditori ambulanti, sosta per aspettare qualcuno che venga a recuperare una bambina che scende in fondo ad un villaggio, sosta per fare i bisogni, sosta perché un poliziotto non è convinto del motorino sul tetto, si scende tutti e si aspetta e si contratta mezzora, sosta alla stazione della città perché per proseguire si deve cambiare minibus. Sul nuovo minibus sono ancora più stretto, con un ragazzo mezzo in piedi e mezzo seduto con le gambe incastrate tra le mie. Arrivo ad Ambalavao e mi dico: “Più a sud di così non mi spingo”.
Per arrivare qui forse c’era anche il minibus a lungo raggio, quello un po’ più in forma, che si ferma meno, ma alla stazione sono stato comprato e rivenduto tre volte. Ho dato i soldi a un autista davanti al suo mezzo, che sembrava in discrete condizioni. Ma lui poi mi ha consegnato a un altro autista. Si sono scambiati qualche banconota, e il secondo autista mi ha a sua volta rivenduto a un terzo. Passandosi soldi di mano in mano è rimasto poco, e devo pagare la differenza. Cornuto e mazziato. Mi devo costringere a litigare per non pagare troppe tangenti.
Ogni volta che si parte un nugolo di autisti discutono, contrattano, si passano soldi, poi ci ripensano, se li riscambiano. Uno corre via con una banconota, torna con il cambio, se lo ridistribuiscono, poi si parte.
Le stazioni dei minibus sono anche delle officine meccaniche. Vicino al mio mezzo due ragazzi, armati di martello e scalpello, cercano di fare ruotare i bulloni di una ruota per smontarla. Puntano lo scalpello contro lo spigolo del bullone e si danno il primo colpo col martello. Prima o poi si sviterà.
Una volta riusciti nell’impresa, tocca la stessa sorte ai freni. Staccano tubi dell’olio, ci soffiano dentro, picchiano con il martello, poi rimontano tutto, sempre a martellate.
Avevo sentito di un taxi-brousse che qualche giorno prima aveva perso i freni ed era piombato a tutta velocità contro le bancarelle di un mercato. Ora mi spiego il perché. Mi spiego anche tutti quei minibus in panne che s’incontrano tra i tornanti sulle colline. Ma non c’è problema. Un martello e uno scalpello e dopo un po’ si riparte. Piano piano, o meglio mora mora.
Esco per una passeggiata ad Ambalavao e annego nel suo mercato, enorme, dove i venditori sono seduti per terra intorno alle stuoie all’aria aperta. Verdura, frutta, carne, pesce, animali morti e animali vivi, vestiti, scarpe, attrezzi per la casa, saponi, dentifrici, lampadine, pile, pentole, cesti, cestine, sacchi, parti di ricambio per biciclette, aratri, saponi, detersivi, cappelli, medicine, tubi, orecchini, sgabelli, … anche cavallette, ammassate in ciotole di plastica e vendute vive per essere cucinate.
Parto all’alba per un breve trekking sulle montagne circostanti. La giornata è splendida, i lemuri dalla coda ad anelli si mettono in posa sulle piante, allargando al cielo le loro zampe per catturare il calore dei primi raggi del sole levante.
La mia guida parla malgascio, francese, inglese, italiano e tedesco. I malgasci in genere non parlano inglese, e questa è un’ottima occasione per le mie domande sul paese e sulla gente. Mi spiega così la recente crisi che il paese, rimasto senza governo per cinque anni, i propositi di rivoluzione se la situazione politica tornata ora alla normalità non produrrà i benefici tanto attesi. Lui è di buona famiglia: cinque fratelli, tutti maschi, sistemati chi in attività turistiche, chi in azienda, uno arruolato nei militari. Può permettersi di mandare i figli a studiare a Fiaranantsoa, seconda città del Madagascar.
Finalmente ho una risposta al perché in molti villaggi ci sono tante case piccolissime: per alcune etnie non è possibile abitare una casa dove è morta una persona. Bisogna bruciarla prima di costruirne sopra una nuova. Meglio allora costruirle piccole e bruciare poco.
Gli chiedo anche delle locuste, incuriosito da uno sciame attraversato un giorno su un taxi-brousse. Nei cinque anni dopo il golpe del 2009 senza aiuti internazionali, nessuno si è più preoccupato di fare alcun piano di prevenzione per contrastare la diffusione delle locuste, che si sono così moltiplicate sempre di più. Se prima erano un problema con il quale convivere, ora sono un flagello nazionale, vera e propria piaga per la popolazione già impoverita.
Gli sciami si muovono a seconda dei venti. Così, se il vento soffia da ovest i problemi vanno verso est, e viceversa.
Finiamo il trekking percorrendo campi coltivati, piantagioni di tea, risaie a terrazza, cactus, campi pieni di verdure. La stagione delle piogge è da poco terminata e il Paese è una festa di prodotti della terra pronti da raccogliere. La gente dei villaggi si riversa nei campi a mietere i raccolti, in un quadretto bucolico da eden terrestre.
Torno ad Ambalavao con un solito taxi-brousse, e noto qualche collina incendiata nei dintorni della cittadina. Alcuni malgasci indicano in quella direzione e scuotono la testa. E’ un ultimo disperato tentativo di tenere lontana quella massa di piccole bestie divoratrici di tutto quello che trovano lungo il loro percorso. Non sarà che il vento stia soffiando dalla parte sbagliata oggi?
Torno alla mia pensione e mi butto sotto la doccia. Mi sto rivestendo, quanto sento iniziare qualcosa che sembra una forte grandinata sul tetto di lamiera. Sento anche delle urla provenire dalla strada, gente che corre, come fosse scoppiata una rivolta. Un flash improvviso mi ricorda gli incendi visti dal minibus, le facce preoccupate dei malgasci. Corro alla finestra ed eccole, sono arrivate le locuste.
Mi armo di macchina fotografica e mi fiondo fuori. Ci sono insetti che volano ovunque, alcuni in alto, alcuni già posati sulla strada. Alcuni mi colpiscono. Ma è soltanto l’inizio. Mi giro verso la lunga via che taglia in due il villaggio e vedo l’orizzonte coperto da una nuvola scura che si avvicina. Sta per abbattersi un temporale d’insetti.
Le gente guarda verso il cielo, commentano, altri continuano a camminare come se non stesse succedendo nulla. L’intero villaggio è coperto da una nuvola scura. Sulla strada si vedono infinite piccolissime ombre sovrapposte, che corrono velocissime, mentre la mia ombra è diventata pallida. Fa più fresco, il sole ha perso forza oscurato dai milioni, forse miliardi, d’insetti in volo.
Sembra il set di un film di fantascienza. Il flagello inflitto da Dio al Faraone d’Egitto che si materializza davanti ai miei occhi.
Siamo alla fine della stagione delle piogge, proprio quando il raccolto è maturo.
Il 60{3b70773b31d594d7f4479695f32700f06eb0f9aaeeb96ff7ff881d03070c4a2a} della produzione nazionale è a rischio. Le cavallette dall’altra parte invece contano le tonnellate di riso a disposizione.
Sento tante piccole cose piovermi sulla testa. Cacca di locusta. Sopra la mia testa ne ho migliaia, e ne bastano poche che fanno i loro bisogni per farne pioggia. Per fortuna cacchette le sono piccole e dure e mi rimbalzano addosso.
Io continuo a guardarmi in giro. Per me sarà un’esperienza incredibile da raccontare, per loro una disgrazia piovuta dal cielo che si aggiunge alla già grave situazione economica. Il tutto dura meno di un’ora, poi le locuste si posano a banchettare di quello che sarebbe stato il raccolto dei campi. La cittadina ora pare tranquilla, tornata ad un’apparente normalità. Ma tutt’intorno, una miriade di piccole bocche sta freneticamente divorando ogni cosa vegetale. Ne osservo una da vicino: un insetto relativamente piccolo, grazioso, che mi guarda con i suoi piccoli occhietti neri e scappa via appena mi avvicino troppo. Un animaletto indifeso, come la singola formica di un esercito di legionarie.
Mai come in questi casi l’unione fa la forza. Non servono gli incendi, non servono gli scongiuri. Quando arrivano si può solo aspettare che vadano via, e sperare che lascino qualcosa. Nella stagione secca, quando il cibo scarseggia, le locuste migrano divorandosi l’un l’altra. Per quanto macabro, è il sistema più economico ed efficiente per lo sciame, che prosegue come un esercito in guerra. Ora invece è stagione di abbondanza, e le locuste banchettano senza ritegno.
Mangiano tutto, in particolare il riso. I malgasci non ci stanno. Mettono delle reti con le quali ne catturano sacchi interi. Si riprendono così un po’ di riso con intorno la locusta, oppure la locusta con dentro il chicco di riso. E’ una magra consolazione.
Mi siedo al tavolo della pensione e chiedo di mangiare. Riso ovviamente, non c’è molto altro nel menu. Mi mettono davanti il piatto straboccante e mi sento anch’io una cavalletta che sta mangiando il loro raccolto. Mi consolo con il fatto che io, a differenza delle locuste, saldo il conto prima di andarmene.