Daisuke è partito da Tokio in bicicletta. Destinazione Istanbul. La sua pelle è scura come quella di un uomo dell’Africa nera. Non ha potuto fare molto. Nemmeno le maniche lunghe hanno impedito, nei mesi sotto al sole dell’Asia, di abbronzarsi sempre di più. Ha attraversato la Cina e le sue megalopoli. Lui e la sua piccola bicicletta, con una piccola cartina in mano, attraverso snodi stradali giganteschi. Poi ha attraversato gli spazi infiniti del Kazakistan, dormendo in tenda e non incontrando essere umano per giorni. Si è licenziato dal lavoro perché nessun giapponese può avere così tante ferie. Ormai pedala quotidianamente anche oltre 100 km. Poi ogni tanto si ferma e riposa un giorno. “Cosa farai al ritorno?”.
Risponde molto calmo, con gli occhi un po’ socchiusi come se li stesse ancora strizzando mentre pedale sotto al sole: “Cercherò un nuovo lavoro”.
Non è l’unico giapponese. C’è una ragazza alla pensione di Bukhara, di cui non so il nome perché tutti la chiamano Sushi. È minuscola, ma molto determinata, e sprizza energia da tutti i pori. Sushi un lavoro non lo aveva. È partita con pochissimi risparmi, ha attraversato la Cina con i mezzi e il Kirghizistan in autostop. I kirghizi sono talmente ospitali che lei non ha mai potuto pagare né un passaggio né una sistemazione o un pasto. Proseguirà forse fino all’Europa, almeno fino a che finirà i soldi.
A Chiva m’imbatto Eichi, in un altro giapponese, partito in moto da Osaka e che conta di arrivare in Portogallo. Con la sua moto, rigorosamente giapponese, ha attraversato la Mongolia e la Cina, affidandosi al suo serbatoio di riserva e al navigatore satellitare. Anche lui si è licenziato dal lavoro, ma la sua preoccupazione primaria ora è riuscire ad arrivare in Italia per poi proseguire prima dell’arrivo dell’inverno.
C’è anche un ciclista svizzero. È partito con la sua bicicletta 5 anni fa e non si è più fermato. Non abbandona mai la bicicletta, che chiude in stanza vicino al letto. Ha visto tutto, ha vissuto tutto. Ora mi sembra andare avanti in uno stato ovattato, quasi in una tranche di un ballo che continua e la musica che non smette mai di suonare. Non so perché ma invece che provare invidia mi viene un sentimento di tristezza.
Una coppia di francesi è arrivata dalla Russia, navigando lungo il volga. Fanno il giro del mondo, per l’ottava volta nella loro vita.
Poi c’è Artemisa, messicana che vive a Londra e che saltella per l’Asia Centrale senza fermarsi un secondo. Gironzola per l’Uzbekistan in cerca in un visto per il Turkmenistan. La incontro a Chiva e poi me la ritrovo a 500 km di distanza davanti alla porta della guesthouse a Bukhara, quando lei in realtà doveva essere a Tashkent, ma viste delle difficoltà burocratiche non ha perso tempo e continua a saltellare attraverso l’Uzbekistan. Saluto lei e dopo due minuti re-incontro anche Irina, tedesca, che con me e Artemisa era a Chiva a visitare le fortezze nel deserto. Irina doveva essere a Samarcanda, invece ci vediamo a Bukhara dopo che ha improvvisamente cambiato programma. È arrivata in Uzbekistan dal Tagikistan, dove in una tappa sulle montagne l’autista si è sentito male e ha guidato lei il minibus, tra lo sguardo terrorizzato dei passeggeri nel vedere una donna al volante.
A Shahrisabz arrivana una coppia canadese in bicicletta. Sono partiti facendo il coast-to-coast in Canada. Hanno deciso di proseguire e sono arrivati alla fine del mondo, nella Terra del Fuoco. Non erano stanchi e così hanno deciso di continuare attraverso tutta l’Asia.
I viaggiatori che incontro in Asia Centrale sembra siano lì per caso, in una terra di mezzo, di passaggio da un continente all’altro, proprio come succedeva ai tempi della Via della Seta, quando i mercanti s’incontravano nei caravanserragli uzbeki prima di valicare i passi verso la Cina, o a riposarsi dopo avere già passato il deserto del Taklamakan e i confini tra le montagne.
Io sono lì per il solo Uzbekistan, farò il mio viaggio e tornerò a casa, senza perdermi nelle steppe, senza essermi licenziato e senza girovagare senza meta. Ma la voglia di continuare mi prende subito. Inizio a chiedere quasi avidamente informazioni, nella mia testa traccio rotte sulle mappe. Il magico mondo di quelle terre di mezzo mi ha rapito. Non incontro nessuno arrivato dalla Strada del Pamir, ma le voci mi sono arrivate, racconti di racconti, voci di corridoio che gli altri viaggiatori mi portano. C’è di mezzo l’inverno, forse un viaggio ai tropici o forse in Medio Oriente, ma la mia testa è già là, tra i Monti del Pamir tra il Tagikistan e il Kirghizistan. Ormai non posso più aspettare.