Io non posso scendere da quell’aereo. Al check-in sono stati chiari: hai un volo per Tashkent e lì ti dobbiamo consegnare. E’ una questione legale. Me lo ha ribadito sull’aereo la capa hostess: c’è solo una comitiva che si ferma lì, allo scalo di Urgench. Gli altri devono rimanere a bordo fino alla destinazione finale. Io compreso.
Ho passato la notte in volo non riuscendo a pensare che i miei piani stavano andando in fumo proprio alla partenza. Ho scoperto che il volo per Tashkent facesse questo scalo nel nord dell’Uzbekistan solo il giorno prima della partenza, e ho ripianificato tutto nella mia testa. Atterriamo a Urgench di prima mattina. Il sole ha già fatto capolino e io fremo dal scendere, dall’iniziare il viaggio lì a nord e poi dirigermi con calma verso sud. Quelli della comitiva sfilano al mio fianco con le loro valigie e io non sto più nella pelle. E’ una questione di un attimo. Mi guardo in giro in cerca della capa hostess. Non c’è. Intanto l’ultima persona mi passa di fianco.
E’ il momento giusto: ora o mai più. Mi alzo di scatto, prendo lo zaino e mi accodo al gruppo come se mi stessi imbucando ad una festa. Esco inosservato dal portellone e scendo la scaletta, poi cammino con il cuore il gola superando tutti e presentandomi davanti alla comitiva ai banchi per il visto Uzbeko. Tra me e la libertà c’è di mezzo soltanto un timbro. Ma il militare tergiversa prima di iniziare la giornata lavorativa, mentre io rigiro nervosamente il passaporto tra le mani.Sembra ormai fatta, quando un poliziotto entra nella stanza urlando a gran voce in una lingua che non capisco. Ma so già chi sta cercando. Mi arrendo. Bandiera bianca, vado a costituirmi. Lui mi scruta e fa cenno di mostrargli le mie carte. Mi prende per la collottola e mi “accompagna” attraverso tutta la sala degli arrivi. Io sfilo come un fuorilegge appena arrestato. Vedo gli occhi degli altri passeggeri puntanti addosso, e i vociare dei commenti sommessi. L’Uzbekistan è un viaggio facile. L’unico problema potevano essere i poliziotti, e io mi sono cacciato subito in questo guaio. Provo a farfugliare qualche scusa, ma probabilmente lui non parla nemmeno inglese.
Camminiamo lungo la pista, raggiungiamo l’aereo e risaliamo la scaletta. La vedo in alto, in cima, la capa hostess. Se ne sta immobile, sull’attenti, in attesa di fucilarmi. Il poliziotto mi mette di fronte a lei che mi guarda con uno sguardo furibondo. Mi guarda e non mi rivolge la parola. Io allora mi metto a parlare con l’altra hostess che sta al suo fianco e sembra ridere sotto i baffi. Farfuglio di nuovo qualche scusa. “Io devo scendere qui. Devo essere a Chiva stasera”, come se fossi chissà quale diplomatico. “Lasciatemi scendere, non c’è problema”. Si mettono a confabulare e il poliziotto chiama qualcuno alla radio. Guarda il mio piccolo zaino sulle spalle e mi fa un cenno su dove sia il mio bagaglio. Non ho nulla, solo questo. Fatemi scendere. Passano alcuni secondi. Il poliziotto mi scruta un’ultima volta, poi fa un passo indietro. Sono libero!
La giornata sta iniziando, il sole splende caldo sulle steppe dell’Asia Centrale. Chiva mi aspetta. Fuori all’aeroporto invece non mi attende nessuno, né un autobus, né un taxi, né un procacciatore di clienti per una pensione. Come arriverò a Chiva non lo so, ma questa è un’altra storia. Intanto m’incammino a piedi. Il viaggio è iniziato.