La mia pensione a Fez è al secondo piano di un vecchio riad marocchino. Dalla terrazza ho il panorama sulla medina di Fez, ma la vista che si scorge non è molto elegante o poetica. Non è un minareto né un elegante palazzo. Apro la finestra e di fronte a me ho una distesa di antenne paraboliche, tutte uguali, tutte orientate verso lo stesso sole, che non manda raggi di luce, che non scalda le persone e non fa crescere fiori e alberi, bensì trasmette un segnale televisivo per uno schermo appoggiato in un salotto.
Migliaia di persone alla ricerca di quel segnale come un girasole cerca la luce per trarne linfa vitale. Ogni famiglia con la propria parabola, il proprio cavo, il proprio schermo, tutti ad ascoltare la stessa voce, lo stesso programma, a vedere le stesse immagini. Fatico a credere al contrasto. Le piazze del Marocco e la vita di strada mi hanno stregato, con i loro cantastorie, la gente che si ritrova, la comunità che mantiene le proprie abitudini e tradizioni, da secoli. La televisione è arrivata anche qui, in modo dirompente. Chissà quali cambiamenti porterà. Scatto queste foto surreali della civiltà che diventa moderna e folle, ma poi esco e torno in piazza. Finché sono qui voglio vivere in mezzo alla gente, sentire le voci, osservare l’incantatore di serpenti e i musicisti nella piazza, mangiare alle bancarelle in mezzo alla folla che si riversa in strada. Non me li voglio immaginare più tardi, tutti seduti sullo stesso divano, tutti zitti, tutti davanti alla stessa sterilità, magari una partita di calcio dall’altra parte del mondo. Spero sempre che qualcuno nel mondo riuscirà a resistere a quella malsana tentazione.