Il diario del viaggio in Lapponia è uno dei capitoli del mio libro “RACCONTI DAL GRANDE NORD, viaggio alle alte latitudini”
La sveglia suona alle 6 del mattino. Non ho idea di quale sia la temperatura oggi nel parco dell’Oulanka. So solo che fa freddo. Ieri non ero coperto abbastanza e non ho quasi chiuso occhio. Questa notte ho dormito indossando tre paia di calze di lana, pantaloni da trekking invernali e tuta da sci, in due sacchi a pelo uno dentro l’altro. L’interno della tenda è coperto da uno strato di brina che al primo scossone cade come fosse neve. Ci aspetta la tappa più lunga della traversata.
Carichiamo le slitte (pulka) con il cibo e tutto il materiale. Le caliamo sulle scale trasformate in trappole ghiacciate, assicurandole con le corde e tirandole fuori a mano quando escono di lato e sprofondano nella neve fresca. Ci caliamo noi stessi con la corda, dove il ghiaccio vivo non è praticabile né con gli scarponi né con le ciaspole. Un ponte sospeso traversa il fiume ghiacciato, e oscilla sulle funi mentre trasciniamo le slitte che s’incastrano a destra o a sinistra. Infine dobbiamo risalire dall’altro lato la valle scavata dal fiume, issando le slitte dall’alto, con corde e moschettoni ancorati agli alberi. Superare i primi 300 metri ci fa perdere un’ora e mezza.
Il panorama è lo stesso da tre giorni: abeti, betulle e neve. La terra è bianca come il cielo. Le linee caotiche dei tronchi scorrono e si mischiano come in un caleidoscopio. Incontriamo fiumi e laghi completamente ricoperti di bianco. A volte l’acqua riesce a uscire dal ghiaccio, gorgoglia nera come la pece, perché non c’è alcun verde o blu da riflettere. Ribolle in una pozza e poi sparisce di nuovo sotto allo strato ghiacciato.
Osservo le figure disegnate dalla neve che si posa su ogni cosa, su ogni rametto degli abeti, su ogni irregolarità del tronco. Si aggrappa e lì rimane, cristallizzata nel gelo artico. Il paesaggio è immobile, immerso in un silenzio bianco e ovattato. Ogni tanto un abete, nella sua apparente paralisi, improvvisamente si scrolla di dosso la neve. Un movimento timido e impercettibile. Una nuvola soffice scuote l’aria. Sento prima il sibilo e poi la neve polverosa che m’investe dalla testa. È tutto quello che succede. Poi torna il silenzio.
Procediamo in fila indiana aprendo la pista nella neve fresca. Dopo sei ore di marcia arriva il mio turno di trascinare la pulka. Pesa almeno 40 chili, collegata ad una imbragatura con due tubi metallici. Una ogni due persone. Io, a dire il vero, sono già stanco. Mi si è anche gonfiata una mano per una infiammazione e cammino senza potermi aiutare con i bastoncini. Bevo acqua e sali minerali, mando giù manciate di frutta secca e qualche barretta energetica. Mi lego l’imbragatura della slitta e rimetto lo zaino sulle spalle già un po’ doloranti. Non so dove troverò le energie per la restante metà della tappa. Mi assale il dubbio e la preoccupazione di non farcela. Ora alla camminata si aggiunge lo sforzo fisico di trascinare la pulka. Ma non penso alla fatica. Avanzo passo dopo passo, circondato da un ambiente unico e irreale. Camminare diventa una sorta di meditazione, molto tranquilla, quasi uno stato di tranche. Osservo gli abeti carichi di neve, quelli grandi e statuari e quelli piccoli incurvati sotto al peso della neve, il sentiero sinuoso che si insinua nella foresta e si perde poco più avanti nel disordine degli alberi. La luce è sempre la stessa, bianca e uniforme. Potrebbero essere le 10 del mattino o le 4 del pomeriggio. Il tempo sembra essere fermo. Sento qualche rufolo di vento che sibila sulle punte degli alberi, una voce che sussurra, melliflua e illusoria, l’unica traccia di qualcosa che si muove oltre a noi. Le gambe continuano a macinare passi, la slitta si fa strada nella neve.
Proprio nel momento in cui capisco che ce la stiamo facendo, che arriveremo alla nostra meta, succede quello che avevo già sperimentato camminando sulla via Francigena tra le colline dell’Umbria: vengo pervaso da una sensazione di una strana euforia. Sto benissimo al punto di non sentire più nulla, né il dolore, né la fatica, né le vesciche sotto ai piedi.
Il paesaggio che mi abbraccia è maestosità e purezza, magia e pace, realtà e illusione. Forse questo viaggio è una follia, ma io qui dentro ci sto sempre meglio e potrei andare avanti senza più fermarmi. Sento le gambe sempre più forti. Posso tirare questa dannata slitta fino a Capo Nord. Cala il buio e accendiamo le pile frontali. Io preferisco spegnere la mia, camminando nella notte artica intuendo il terreno seguendo la danza dei fasci di luce dei miei compagni di avventura. Ora la meditazione è quasi un sogno. Avevamo sorvolato la taiga dall’aereo proprio al tramonto. Avevo osservato quelle lande dall’alto, immaginando una spedizione che procedeva in quell’ambiente misterioso, freddo e impossibile. Mi tornano in mente quei pensieri, e ora eccomi lì in mezzo, più forte del gelo e della fatica, in uno stato di felicità e soddisfazione. La destinazione però non arriva mai. Pare si sposti sempre più avanti, chissà dove nella taiga ormai scivolata nella notte. Siamo in marcia da quasi dodici ore. I muscoli alla fine smettono di seguire il cervello. Lo stato di euforia lascia strada alla realtà, alla stanchezza di una giornata senza fine. Procedo a scatti, frenato ad ogni passo dal rinculo della slitta e dei tubi metallici. Le spalle non ce la fanno più. Rallento, ma m’impongo di non fermarmi.
La guida indugia davanti ad un’ultima scala ghiacciata. Siamo arrivati. Il freddo mi gela il sudore. Caliamo le pulka un’ultima volta con le corde. Missione compiuta. Tolgo l’imbragatura, lascio la slitta e butto lo zaino a terra. Oggi più che mai il gruppo si è stretto e unito, e non sono servite parole. Abbraccio uno a uno i miei compagni di viaggio. Sopra di noi le stelle brillano nel cielo. Forse stasera farà apparizione l’aurora boreale. Ma intanto noi dobbiamo scaricare le slitte, spianare il terreno dove monteremo le tende, sciogliere la neve, cucinare. L’aurora ancora non si vede, ma poco importa. Non saranno fotografie quelle che porterò a casa. Questa avventura ha preso un connotato molto più mentale e intimo. Stendo i sacchi a pelo nella tenda, e sprofondo nel sonno senza più alcun pensiero.