Sono arrivato a San Pedro de Atacama dopo un viaggio di quasi due giorni da Vaparaiso, in Cile. Ho risalito la panamericana su un autobus “semi cama”, fino a Calama. Un viaggio lungo 24 ore no stop, in compagnia dei minatori cileni diretti alla miniera di Chuquicamata. La strada risale il Cile verso nord entrando nel deserto de Atacama. Superate le spettrali periferie di Antofagasta, svolta a est e inizia lentamente a salire verso la cordigliera delle Ande, tra lapidi e carcasse di mezzi arrugginiti, sfilando vicino a città fantasma abbandonate alla polvere del deserto. In alcune zone non cade una goccia di pioggia da oltre 40 anni. In altre invece a volte piove un po’ in primavera, ovunque spuntano dei fiorellini e il deserto più arido del pianeta si tinge di rosa. Guardo fuori dal finestrino dell’autobus e mi chiedo dove stia andando. Sembra un viaggio verso la morte.
Poi, all’improvviso, appare l’oasi di San Pedro di Atacama. Un miracolo, un miraggio che diventa realtà. Lì si materializzano piante, acque, case, pensioni, ristoranti, in un’atmosfera freak cileno-internazionale. Si può fare sand-boarding sulle dune, passeggiare nella valle della luna, andare al geysers, bere un cocktail al bar la sera.
Io supero la cordigliera e mi dirigo nel sud della Bolivia, al salar de Uyuni, il lago salato più grande del mondo, piazzato a quasi 4000 metri di quota in mezzo al deserto. Miliardi di tonnellate di sale rimaste là dove c’era un lago preistorico. Come per il lago salato di Issyk Kul in Kirghizistan, una leggenda narra la sua formazione dalle lacrime di una donna che piange in seguito ad una disgrazia.
Io ci arrivo in pieno inverno, quando il salar è completamente secco e nella notte la temperatura crolla parecchio sotto lo zero. Passeggio sulla distesa bianca che mi acceca la vista. Non riesco ad immaginare che lì una volta lì c’era un lago, in mezzo al deserto marziano. Ora l’aria è talmente secca da spaccare le labbra e il naso. Ovunque io guardi, vedo una lunghissima distesa di sale, fino all’orizzonte. Un paesaggio alieno, surreale, fatto di bianco e ombre nere. Scatto qualche foto, l’inquadratura è difficile. C’è un orizzonte piatto, in basso bianco e in alto blu, fine della composizione. Corro ubriacato dalla luce e dalla maestosità dell’ambiente che mi abbraccia. Arrivo in mezzo al salar dove c’è la Isla del Pescado, una collina arida sulla quale crescono cactus ben più alti di me. Da lì la distesa bianca che circonda l’isolotto appare ancora più surreale.
Incontro due brasiliani che sono arrivati lì con un vecchio maggiolone, con il quale hanno sfidato il deserto e i passi a quasi 5000 metri in mezzo alle Ande. La macchina è coperta di una coltre sabbiosa dalla quale spuntano solo il vetro e i fari. E’ riuscita a portarli lì esalando il suo ultimo respiro. Ora è in panne e i due viaggiatori si guardano in giro cercando una soluzione. Non credo troveranno un’officina meccanica tra i cactus. Io continuo verso Uyuni, dove avrò una macchina, ma non la benzina. Quello però ancora non lo so. Intanto, mi godo l’inondazione di luce bianca.