Viaggio in Uzbekistan

pamir express viaggio in asia centrale copertina miniatura

Il mio primo libro, “PAMIR EXPRESS, viaggio in Asia centrale“, diario lungo la Via della Seta, sulla Strada del Pamir tra Tagikistan e Kirghizistan.


Via al racconto di viaggio


Racconto di viaggio – Nelle steppe dell’Uzbekistan

Le cupole blu della moschea di Bibi Khanum s’innalzano nel cielo di Samarcanda.
Seduto all’ombra di un gelso, ripercorro tra le pagine di un libro le storie della Via della Seta. Pochissimi turisti gironzolano nel cortile. Basta un piccolo sforzo d’immaginazione per vedere al loro posto le carovane di mercanti con i loro cammelli, e ritrovarsi indietro di diverse centinaia di anni.
La globalizzazione in qualche modo iniziò da qui. Samarcanda era un po’ una tappa obbligatoria in quel labirinto di strade che si diramavano da qui verso l’Oriente e l’Occidente, formando la Via della Seta.
I popoli che nel tempo si erano divisi e diversificati, venivano di nuovo in contatto, rimescolando le lingue, le razze e le religioni.
L’imponenza, l’eleganza e la maestosità dell’architettura emana ancora un grande fascino, come se le medresse, le cupole e le volte sussurrassero ancore le voci e i suoni intrappolati nel tempo.
Ma a dispetto dell’eleganza, dell’armonia delle forme, del blu delle piastrelle che decorano i muri, la storia accaduta al cospetto di tali prodigi architettonici è stata nei secoli violenta e sanguinosa. Non mancano piccoli aneddoti cruenti.
Proprio dal minareto della moschea di Bibi Khanum, vuole la leggenda, l’architetto che lo costruì si gettò suicidandosi, per evitare di essere catturato e giustiziato direttamente da Tamerlano. C’è una curiosa variante della leggenda che lo vede invece librarsi nell’aria dalla cima del minareto e sparire nel cielo per mezzo delle ali che si era costruito. Bibi Khanum accetta un suo bacio in cambio della promessa di completare la moschea che vuole regalare al marito, prima che torni a Samarcanda; un gesto d’amore che, ironia della sorte, si rivela fatale. Il bacio dell’architetto infatti è talmente focoso che le lascia una bruciatura sulla guancia, e a nulla serve il velo con cui lei prova a nasconderla. Tamerlano scopre il misfatto, e la fa seppellire viva nella moschea. Da lì nacque il chador, che le donne dovettero iniziare a indossare.
Scopro un altro crudele aneddoto a Bhukara, visitando la vecchia prigione con il pozzo degli scarafaggi. L’emiro Nasrullah Khan nel 1841 vi rinchiuse due ufficiali inglesi, che alla fine poterono uscire soltanto per scavare le loro fosse nel Registan, la piazza principale, nella quale furono decapitati tra il tripudio del pubblico. Loro raccontano ancora il fatto ridendo sotto i baffi, in ricordo dello sberleffo che rifilarono agli inglesi.
Oggi, finita l’era sovietica, abbattute le statue Lenin dalle piazze e re-issate quelle del grande condottiero Tamerlano, nel paese regna una certa pace. Il presidente però fa il bello e il cattivo tempo. I media sono sotto stretta sorveglianza, gli studenti per due mesi all’anno vengono riversati nei campi di cotone, con una paga giornaliera giusto sufficiente per pagare la cena.

Salto sulla prima “marshrutka” che mi porta in città e mi trovo davanti ad un’impressionante schiera di sorrisi a denti d’oro. Siamo in diciotto, schiacciati in un minubus da dodici posti, io seduto al contrario rispetto agli altri, e la schiera di sorrisi dorati che mi si para davanti mi dà l’impressione di essere finito sul set di un film. Invece qui è la moda che va per la maggiore: farsi cavare i denti bianchi, anche se sani, per sostituirli con denti a ventiquattro carati che scintillano al sole. Status symbol Uzbeko, verranno lasciati in eredità alla famiglia.
Il piatto nazionale è il Plov: il riso, mischiato con carote, ceci e carne, viene cotto nel grasso d’agnello. Sul fondo del pentolone resta una brodaglia densa, scura e grassa, che secondo la credenza popolare è estremamente afrodisiaca per l’uomo.
Gli uzbeki, appena sentono la parola “Italia”, mi chiedono “italiano vero?”, e si mettono a intonare la canzone di Toto Cotugno. La scena si ripete anche al mercato di una piccola cittadina in mezzo al niente, che ho raggiunto salendo sul primo autobus che usciva da Buchara.
Oltre a Toto Cotugno, vanno di moda le puntate della Piovra, che vengono doppiate in russo da una sola persona che parla sempre con lo stesso tono inespressivo.
La nostra più famosa canzone che richiama Samarcanda e la Via della Seta è quella di Vecchioni. Loro non la conoscono, ma Aziz, il giovane e tamarro autista che mi porta attraverso il deserto tra Khiva e Bukhara, pare averla nel sangue. Non è il cavallo però a correre, ma la sua vecchia Toyota che sfreccia, sgomma e derapa sulle curve della strada sterrata e piena di buche. Il viaggio dovrebbe durare otto ore, ma Aziz corre, corre e non rallenta mai, e giungiamo a destinazione con tre ore di anticipo.
Dopo 500 chilometri di deserto, 40 gradi, e senza aria condizionata, usciamo dall’auto grondanti di sudore. Emano un odore che sa più di cammello che di essere umano, trovo una pensione e mi fiondo nella doccia. La maniglia della porta mi rimane in mano, i rubinetti cigolano, e dai tubi arrugginiti l’acqua calda esce letteralmente a gocce. Passo alcuni giorni a gironzolare per le moschee e le medresse di Bukhara e Samarcanda, non perdendo l’occasione per qualche passeggiata nelle periferie con le case di fango, poi mi spingo fino oltre le colline verso il confine con il Tagikistan, a Shakhrisabz, la città natale di Tamerlano.
Qui m’imbatto in un gruppo che ragazzi appassionati di scacchi, che a turno mi sfidano nella loro bottega, dove tagliano e vendono lastre di vetro. Impegnato in due sessioni che si protraggono per diverse ore, rinuncio alla visita delle ennesime moschee e medresse. E’ la mia ultima tappa prima di Tashkent.
Arrivo nella capitale dopo il tramonto, con un taxi collettivo. Superiamo carretti trainati dagli asini, che procedono senza luci, sulla destra, facendo un certo atto di fede nei confronti della vista dei camionisti. La città si rivela molto piacevole. L’architettura sovietica dai grandi palazzi grigi contrasta con i vecchi quartieri dalle strade sterrate, case di fango e il solito groviglio di tubi del gas allo scoperto. Faccio scorta di spezie e acquisto uno strumento tradizionale in una bottega di un liutaio. Riparto più appagato di quanto potessi immaginare.
Città che emanano un fascino d’altri tempi, dall’atmosfera carica di magia, con un cielo sempre blu che s’infuoca all’orizzonte quando il sole cala in fondo alla steppa. Gente cordiale e ospitale. Tornerò quanto prima sulle strade della Via della Seta.

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