Viaggio in Laos

Racconto di viaggio


Racconto di viaggio – In tuk tuk tra le montagne del nord

Uno, due, tre, quattro, cinque… venti!
In quanti ci si può stare in un tuk tuk?
Quattro persone davanti, e in sedici sulle due panchine affacciate all’interno.
L’autobus delle 11 per Oudomxai non parte. Non ce ne è alcuna traccia alla stazione, così come non si vede l’autobus che sarebbe dovuto partire per Luang Prabang; ma per le venti persone che vanno in quella direzione viene predisposto questa sorta di ape car ingrandito e adibito al trasporto di persone.
Noi due e un ragazzo cinese restiamo a piedi.
I laotiani alla stazione parlottano un attimo, poi saltano fuori tre piccole sedie di legno. Stringendo, girando o allargando le gambe dei passeggeri già stipati sul tuk tuk, riescono a posizionarle lì in mezzo et voilà… ecco rimediato il posto anche per noi.
Sembra uno scherzo, invece partiamo proprio così.
Siamo in ventitré più bagagli. Credo si tratti di un record.
Le sedie si muovono a ogni curva. Cerco di aggrapparmi per stare in posizione e non premere troppo contro le ginocchia di chi sta sulla panchina.
Gli ammortizzatori sono un miraggio. La ragazza giapponese è preparatissima: estrae il suo piccolo cuscino da viaggio portatile riempiendo d’invidia noi altri che ci rompiamo le ossa a ogni sobbalzo o nei tratti non asfaltati della strada.
Superiamo alcuni bambini che vanno a scuola in bicicletta. Pedalano come in una scena di un film al rallentatore. E’ lo stile laotiano. A differenza dei popoli dei paesi circostanti che corrono frenetici e senza sosta, in Laos tutto scorre a un ritmo molto tranquillo.
Perché fremere, correre, alza la voce, stressarsi per guadagnare un minuto?
Il mondo esterno li ha pressati, in particolare dalla Cina, per aprirsi al progresso, ma loro gli hanno in pratica chiuso le porte in faccia.
Già i francesi negli anni ‘20 avevano descritto la filosofia di vita laotiana in una massima divenuta celebre: “I vietnamiti piantano il riso, i cambogiani lo guardano germogliare, e i laotiani lo ascoltano crescere.”
Avevano anche incentivato lo spostamento in massa di vietnamiti in Laos, ma questi ultimi, invece che portare la frenesia e la voglia di fare, si adattarono piuttosto allo stile di vita locale, mandando in fumo il progetto dei colonizzatori.
Dopo circa un’ora di marcia noi scendiamo alla prima cittadina, crocevia della strada verso sud e di quella che taglia da est verso ovest. Gli altri proseguiranno così per diverse altre ore; ci sgranchiamo le gambe e la schiena mentre li osserviamo con un pizzico di compassione ripartire stipati come polli in una gabbia di un allevamento intensivo. Inganniamo l’attesa dell’autobus per Oudomxai mangiando una zuppa di spaghetti di riso alla stazione.
Poi la sorpresa. Non c’è l’autobus, bensì, ancora una volta, un tuk tuk.
Uno, due, tre, quattro, cinque… ventiquattro! Con il vantaggio di qualche bambino che occupa meno spazio stabiliamo il nuovo record.
Ci stanno anche una gallina, tre piccioni, qualche sacco di riso e un paio di taniche infilati sotto le gambe. La gallina è imbustata in un sacchetto di plastica dal quale esce solo il collo, e piazzata sotto la panca sulla quale siamo seduti. A seconda della velocità del tuk tuk e del vento ci arriva un effetto “arbre magic” al profumo di pollaio. I piccioni invece sono a distanza di sicurezza, in una gabbietta sul retro.
La strada una volta era stata asfaltata, ma le piogge dei monsoni se ne sono mangiate metà. Noi mangiamo la polvere che si solleva ogni volta che incrociamo un altro veicolo.
In questa tappa almeno siamo sulla panchina, anche se stretta e dura. Sullo sgabello che tengo tra i miei piedi c’è una donna con un bambino. Sulla panchina di fronte a me ho un bambino e tre donne con i vestiti delle minoranze etniche dei villaggi di montagna; loro appartengono ai Mong, che costruiscono le case in legno e bambù direttamente per terra invece che su palafitte come le fanno le altre minoranze della zona.
Il bambino alla mia destra non regge i sobbalzi e i tornati e inizia a vomitare. Il padre gli mette un sacchettino rosa davanti alla bocca, poi lo getta via senza pensarci due volte, e la scena si ripete a ogni conato.
L’autista fa una chicane tra una gallina e un suino, prima di fermarsi in mezzo al villaggio. Scendono le donne Mong con i loro bambini e la gallina. Noi restiamo su con i piccioni.
Disegnare una tappa su di una cartina è molto facile. Si uniscono il punto A e il punto B, si controllano i chilometri e tutto sembra semplice. Se non scoprire poi che la strada è per metà non asfaltata e scollina sulle montagne, che il bus diretto non c’è, che il bus poi è questa sorta di triciclo a motore che in salita procede alla velocità di una bicicletta, e che si arriva così alla penultima stazione troppo tardi per vedere un qualunque altro mezzo muoversi.
Quando arriviamo a Oudomxai la stazione degli autobus è ormai deserta. Non c’è modo di proseguire. Ci sistemiamo in una pensione, andiamo ad ammirare il tramonto sul Budda dorato eretto sulla collinetta che domina la cittadina, che poi sprofonda in un desolante letargo. Cena e birra BeerLao in riva al fiume, poi non resta altro che andare a dormire, e presentarsi all’alba del giorno successivo al punto A della prossima tappa, ben definito alla stazione degli autobus, e con il punto B disegnato timidamente a matita sulla prossima destinazione.

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