Racconto di viaggio – Filosofia di vita in Indonesia
Qualcuno me l’aveva detto: in Indonesia la gente è fatalista. Un giorno sei vivo, un giorno sei morto, gli indonesiani non sembrano preoccuparsene troppo.
“Ti ricordi quel nostro cugino…?”. “Si, certo”. “E’ morto”, detto con lo stesso tono con cui direbbero che è andato a fare la spesa o una scampagnata. “E’ morto, davvero?!”. “Sì, è andato nella foresta e non è più tornato”.
Avevo sentito da più fonti questo tipo di racconti, ma non ne avevo capito il motivo fino a quando ho viaggiato attraverso l’isola di Giava.
La strada è l’unico vero pericolo di un viaggio in Indonesia. Il viaggio su un piccolo minibus che mi conduce da Surakarta a Malang è come un giro sulle montagne russe.
La strada significa economia, trasporti, vita. Tutti i villaggi si sviluppano lungo la strada, zeppa di motorini, trattori, animali, auto, camion, e qualunque tipo di mezzo che si muove a qualunque velocità. Il mio viaggio in minibus dura sette ore. Il clacson non smette mai di suonare. Il piccolo pullman è molto più veloce della maggior parte dei mezzi che incontriamo. Passiamo la maggior parte del tempo in contromano superando tutti. Nel senso opposto la strada non è mai libera, ma non importa. I motorini si fanno da parte, a volte fermano e si accostano, si buttano fuori per evitare il nostro autista che strombazza all’impazzata. Superiamo un camion in una curva cieca quando ne sopraggiunge un altro in senso opposto. I clacson suonano, i freni stridono, il sorpassato si stringe da una parte, il camion dall’altra. Noi ci infiliamo in mezzo. Via con il prossimo.
Motorini e biciclette gremiscono la strada come branchi di pesci, che cambiano rotta all’improvviso e si dividono sfilando a destra e a sinistra. In mezzo passano i pesci grossi, cioè noi e i camion.
Sette ore di viaggio con fiato sospeso. Dopo un frontale scampato per questione di millimetri, credo che rallenterà, che si sarà spaventato anche lui, ma l’autista procede come se stesse fuggendo da un’esplosione nucleare.
Ad est di Giava m’imbarco su un grosso autobus di linea con circa cinquanta persone a bordo. La musica non cambia. E’ più lento del pullmino e il viaggio scorre un po’ più tranquillo, fino a quando cerchiamo di sorpassare un altro autobus in una curva cieca sulle colline. Dall’altra parte sopraggiunge un camion che ci ritroviamo dritto in fronte. Inchiodiamo noi, inchioda il camion. I freni stridono, i clacson urlano. Il bus sbanda e per miracolo riusciamo a frenare e ad accodarci. Il camion ci sfreccia a lato a qualche millimetro, alzando una nuvola di polvere. L’autista ritenta la stessa manovra alla curva successiva, anch’essa cieca. Questa volta il camion in senso opposto non arriva. Perché di tutta questa follia al volante?
Deve stare tutto nel loro vivere la vita alla giornata, nel loro atteggiamento fatalista. L’Indonesia è una tra le terre più disgraziate del pianeta. Costellata di vulcani attivi, eruzioni e terremoti sono all’ordine del giorno. L’esplosione del Krakatau nel 1883 è stata una tra più grandi catastrofi naturali che la storia ricordi. L’esplosione del vulcano fu avvertita a quasi 5000 km di distanza. Le sue ceneri oscurarono il sole per giorni, e orbitarono nell’atmosfera intorno al pianeta per anni. L’isola che ospitava il vulcano venne polverizzata, e uno tsunami con un onda alta quaranta metri fece ancora più vittime dell’esplosione stessa.
Gli indonesiani si svegliano tutte le mattine all’ombra di questi giganti fumanti, che da un momento all’altro potrebbero esplodere e cancellare intere regioni in un istante. I terremoti, talvolta violentissimi, scuotono continuamente la terra. Sono attaccati su tutti i fronti. Se il terremoto avviene in mare uno tsunami può abbattersi sulla costa e spazzare via interi villaggi, come successo nel 2004.
Dopo che il Krakatau è esploso e collassato nel mare, dal mezzo dell’oceano è emerso il figlio, l’Anak Krakatau, che cresce a vista d’occhio e potrebbe seguire in futuro la carriera del padre.
La natura mostra tutta la sua forza, e non si può fare nulla per contenerla.
Ho ammirato un’alba mistica dal tempio di Borobudur, eretto su una collina che domina una pianura di palme avvolte nella nebbia mattutina. Il sole sorge esattamente dietro il cratere del Merapi, la “montagna di fuoco”, un vulcano fumante che alterna eruzioni e terremoti, spesso catastrofici.
Ho passeggiato intorno al cratere del vulcano Bromo, che emette costantemente una cortina di fumo. Guardare dentro fa impressione. Dietro di esso, il più imponente Semeru sparava nel cielo una nube di cenere ogni dieci minuti. Per me sono stati momenti di emozione, occasioni per scattare alcune foto da cartolina, ma per loro significa avere la vita costantemente appesa a un filo.
Gli indonesiani si svegliano la mattina, guardano il vulcano e ringraziano gli dei di avergli concesso un altro giorno di vita. Noi compriamo la casa e facciamo un mutuo trentennale. Punti di vista sulla vita diversi. Sembra che in loro ne derivi una certa saggezza. Vivono con il sorriso sulla bocca, gioendo delle piccole cose, e senza farsi troppi falsi problemi. Non esistono suicidi. Noi abbiamo stabilità, ricchezza, tutti gli agi del mondo occidentale, e andiamo in cura dallo psicologo, o addirittura ci buttiamo dalla finestra o sotto la metropolitana, perchè insoddisfatti della vita.