Racconto di viaggio – In Bolivia senza benzina
San Pedro de Atacama. Passeggio tra la polvere di questa oasi nell’immenso deserto di Atacama. Quando inizia a soffiare il vento, la sabbia copre tutto. E’ inutile cercare di toglierla.
“Dura tre giorni”, mi dice con aria rassegnata un ragazzo locale.
“Ogni volta che soffia, lo fa per tre giorni esatti, poi si placa, e noi puliamo le case”.
San Pedro de Atacama è un piccolo villaggio Cileno, l’ultimo avamposto prima della cordigliera delle Ande e del confine con la Bolivia.
Oltre ad essere un conveniente punto di sosta di un viaggio, è circondato dai paesaggi marziani della “valle della luna”, alcuni laghi salati e geyser.
Il turismo di massa con gli alberghi a cinque stelle e autobus a due piani con l’aria condizionata ha risparmiato quest’angolo remoto del Sud America. Le strade sono piste di terra in mezzo al deserto, non ci sono trasporti pubblici, e per attraversare il confine con la Bolivia bisogna superare la cordigliera delle Ande. Avventurarsi da soli sui valichi a quasi 5000 metri sarebbe impensabile. Mi affido a una “agenzia viaggi” locale. Ne scelgo una a caso tra le tante, ed entro nel loro “ufficio”. Agenzia viaggi è una parola grossa. Anche ufficio è una parola grossa, e perfino “vetrina” è troppo. Una stanza nella casa con il tetto di paglia, senza nemmeno una porta. All’interno, ci sono solo un tavolo, un telefono, due sedie, un quaderno e una penna. Ci sono già 5 persone che partono tra due giorni. Mi aggregherò a loro. Mi rimane così un giorno per visitare i geysers del “El Tatio”, una valle a oltre 4000 metri piena di fumarole e piccoli geysers che sbuffano vapore in mezzo ad una piana ghiacciata.
L’agenzia viaggi non fa molto. Alza la cornetta e contattare un dirimpettaio dall’altra parte della cordigliera. Ci porteranno al confine e ci consegneranno nelle mani di un boliviano e del suo fuoristrada. Poi saranno affari nostri.
Partiamo in piena notte. Siamo due spagnoli, due austriaci, io e un tedesco, come nelle barzellette. Il ragazzo tedesco si è licenziato dal lavoro in fabbrica, gira il mondo da un anno con lo zaino in spalla e una chitarra.
Arriviamo all’alba al confine surreale. In mezzo al deserto c’è una piccola casetta di fianco alla quale hanno messo due sbarre, perse nell’immensità, sull’altopiano a 4300 metri di quota. Non c’è una dogana che come un imbuto ti attira verso di se, circondata da filo spinato. Non ci sono le torrette, né militari armati pronti a scrutare facce sospette. Te la devi andare a cercare, lassù in mezzo al niente. Devi bussare tu alla porta. Apre la porta un boliviano infreddolito con l’uniforme scolorita.
Sbrighiamo le pratiche del visto e ci mettiamo in attesa di qualcuno che arrivi dalla Bolivia. È inverno, io sto gelando, sferzato dal vento che spazza la polvere. Il nostro autista spunta con la sua jeep, un vecchio scassone Toyota. Sul tetto ci sono tre taniche di acqua, la nostra scorta per questi giorni sugli altipiani.
Attraversiamo paesaggi immensi, distese di sabbia rosa dove i vulcani sullo sfondo sono l’unico riferimento, insieme al sole.
La laguna verde è un laghetto limpidissimo, di colore smeraldo, orlato di una spessa crosta di ghiaccio. Subito dietro, lo sovrastano i quasi 6000 metri del vulcano Licancabur.
Continuiamo la nostra marcia su piste di sabbia, salite e discese piene di grossi sassi sui quali anche la jeep si arrampica con difficoltà.
Nel pomeriggio arriviamo alla laguna Colorada, un lago rosso popolato da migliaia di fenicotteri rosa. Il rosso rubino si mischia con il bianco delle lingue ghiacciate. Piccoli pezzi di ghiaccio galleggiano alla deriva.
Diversi vulcani incorniciano questo paesaggio marziano. Il ragazzo tedesco mi guarda per un po’ senza dire nulla, poi, con gli occhi spiritati, mi dice una sola parola: “incredibile”.
Siamo a 4300 metri e intorno alla laguna pascolano alcuni lama. Basta un po’ di acqua, e anche in un luogo così inospitale esplode la vita.
Uccelli, lama, alpaca, insetti, vegetazione, il deserto cambia faccia.
Verso sera la temperatura precipita sotto zero. Nella notte scenderà a -20 gradi. Nel villaggio non ci sono né riscaldamento né acqua corrente. L’elettricità viene centellinata, erogata per due sole ore al giorno subito dopo il tramonto.
La stellata è uno spettacolo che ripaga ampiamente la scomoda sistemazione. In mezzo al deserto più arido del pianeta, le stelle rubano il nero a ogni angolo del cielo.
I nostri pasti sono sempre un piatto di quinoa condito con pomodori e cetrioli.
L’autista boliviano è scorbutico. E’ abituato a portare in giro turisti che si aspettano l’escursione organizzata dei villaggi “all inclusive”, e che si lamentano poi per le condizioni spartane. Girano infatti alcune voci che questi viaggi siano infernali, e in alcuni uffici informazioni si leggono racconti di autisti ubriachi a 4000 metri e storie più o meno terrificanti.
La nostra stanza è in una costruzione con un tetto di lamiera. Dormo vestito, rintanato nel sacco a pelo con sopra quattro coperte, e due calzettoni di alpaca.
Ripartiamo nel gelo dell’alba. Arriviamo a sfiorare i 5000 metri, dove ci sono diverse pozze ribollenti di geysers sulfurei, che sprigionano miasmi tossici allo zolfo.
Il tedesco tira fuori la chitarra, e l’autista di colpo cambia faccia.
Finita la visita ai geysers ci chiama a gran voce: “Vamos cantando”. Anche lui è un musicista, suona le percussioni in una band boliviana. La cassetta che stiamo ascoltando alla paranoia da oltre un giorno è la sua band. Da autista si trasforma in compagno di viaggio. Ci illustra i posti e racconta storie.
Ci spiega che è meglio che percorriamo velocemente quel tratto di deserto per arrivare presto all’ostello di sale ai margini del salar di Uyuni. Ma dopo una breve sosta per ammirare il paesaggio, lo scassone non riparte più.
Lo spingiamo nella sabbia e a 4500 metri di quota. Lo scassone riprende vita faticosamente. “Il coche sta mal”. Proseguiremo lentamente.
L’ostello al Salar de Uyuni è fatto esclusivamente di sale: muri, tavoli, sedie, pavimento e letti. Per un dollaro possiamo fare una breve doccia calda. Il ragazzo tedesco non vuole togliersi di dosso la sabbia. E’ parte di questo tratto di viaggio nel deserto. Non farà la doccia finché non ne usciremo. Io invece cedo alla tentazione e porgo il dollaro alla vecchia andina che apre il rubinetto del lusso.
L’ostello di sale è molto più efficiente e caldo del rifugio della notte precedente, meno freddo e meno un quota. Non servono né foglie di coca né aspirine.
Il lago salato è una distesa bianchissima che si perde fino all’orizzonte, la più grande del pianeta. Il riverbero del sole è accecante. Passeggiamo, corriamo, scattiamo foto, inebriati dall’overdose di luce.
Raggiungiamo il centro del salar, dove c’è in isolotto roccioso pieno di enormi cactus. La sconfinata pianura bianca appare ancora più surreale.
Ci sono due argentini, arrivati da Buenos Aires con un maggiolone, quasi irriconoscibile dallo strato di sabbia che lo ricopre. Hanno superato un passo a 5000 metri, i freni sono andati fuori uso, e non sanno come proseguire.
Arriviamo a Uyuni, la città più fredda della Bolivia.
Il nostro autista ci saluta, ci abbracciamo e salutiamo augurandoci buona fortuna. Austriaci e tedesco continuano il viaggio in Bolivia, mentre io e gli spagnoli torniamo verso il Cile. Nel tardo pomeriggio qualcuno arriverà a prelevarci per iniziare il viaggio di ritorno. Passeggiamo per la cittadina polverosa, e visitiamo l’ex stazione dei treni, un ammasso di carrozze arrugginite e in disuso da anni. È l’attrazione turistica del posto.
Ci presentiamo all’appuntamento prefissato per il ritorno. Dopo un po’ giunge un uomo, in bicicletta. Non è un buon segno.
Infatti, in città non c’è più “gasolina”. L’uomo in bicicletta dice che c’è un treno che torna in Cile. Avevamo superato i binari con il nostro amico boliviano. Peccato che il treno passi una volta alla settimana, diretto più a nord. Io vorrei tornare a San Pedro. La ragazza austriaca che ci lavora mi aveva promesso che mi avrebbe tenuto la camera per il mio ritorno.
Un nugolo di curiosi accalca intorno a noi, quando arriva un fiammante 4×4. Il ragazzo scende ed esclama trionfante che lui ha la benzina, e che per 20 dollari ci porta indietro. Fino al confine almeno.
Partiamo di gran carriera su una pista nel deserto molto più scorrevole di quelle percorse nei giorni scorsi, lasciandoci alle spalle una cortina di polvere.
Su una lunghissima salita un grosso autobus sopraggiunge in senso opposto. Già da lontano inizia ad abbagliare con i fari. Qui non c’è modo di uscire dalla pista di sabbia, possiamo solo farci piccoli piccoli sulla destra della strada. L’autobus, è anch’esso un grosso scassone semiarrugginito, non ha freni sufficienti per fermarsi sulla discesa. Continua a lampeggiare, poi sbanda due o tre volte e ci sfreccia via a pochi centimetri. Trattengo il fiato. Guardo ragazza spagnola negli occhi, ammutolito come lei.
Il passaggio offertoci dal boliviano termina la mattina successiva al confine. Attendiamo il destino lì fuori in mezzo al nulla. Il vento gelido fischia nelle orecchie e la sabbia penetra ovunque. Dopo due ore arriva un pullmino. È il nostro passaggio.
Torno al mio ostello. Il proprietario mi confessa che la mia camera doveva essere presa da tre altri viaggiatori, ma la ragazza austriaca me l’aveva promessa e l’ha difesa con i denti. Non solo, per la sera mi ha anche organizzato una piccola festa di bentornato. Anche di addio a dire il vero. Il giorno dopo mi attendono 16 ore di pullman per il mio ritorno verso il Cile centrale.