Il mio autobus per il lago Shikotsu-ko parte da Sapporo. La stazione non pare molto giapponese, e non è facile capire su quale bus devo salire senza parlare la lingua. Mi aiuta Yae, una ragazza giapponese che mi spalanca davanti un sorriso luminoso. Indossa una camicia a righe e un cappellino verde. Sta andando anche lei allo Shikotsuko, e m’ivita a sedermi con lei.
Vive a Tokyo, in una vita al limite dello stress, e si prende qualche weekend lungo per fuggire dalla metropoli e rifugiarsi in mezzo alla natura. Questa volta ha scelto l’Hokkaido. Il viaggio dura circa un’ora e mezza. Yae parla. Continua a chiedere scusa. Chiede scusa perché non conosce un termine, perché non sa una risposta ad una domanda in modo esaustivo. Io però non vedo colpa alcuna. Allora inizio a chiedere scusa qui e là, maagri quando non so qualcosa in giapponese. La conversazione procede su binari molto pacati e delicati, molto giapponesi.
Il lago Skikotsu è uno specchio di acqua saturo di blu che giace in una caldera di uno dei tanti vulcani che costellano una linea di fuoco che parte dall’indonesia e arriva fino alla Kamchatka. Intorno ci sono colline verdi e piccole montagne che si stagliano all’orizzonte. Passeggio sulle rive e Yae mi racconta la sua vita. Abita in una delle tante periferie di Tokyo. Per arrivare al lavoro ci mette circa due ore con i mezzi pubblici. In una giornata spende 4 ore sui mezzi e 8 ore più straordinari al lavoro. Già questo per me sarebbe troppo. Ma per lei il vero problema è resistere al lavoro. È addetta all’accoglienza in una clinica psichiatrica. Non vuole dire fare solo la segretaria, ma fare il primo lavoro sui pazienti, che a volte si presentano dopo un tentato suicidio, o con l’idea di farlo. Le vomitano addosso tutti i loro problemi, le dicono di non volere più vivere, che la vita è brutta e inutile e vogliono farla finita. Lei li deve rassicurare, convincerli a farsi curare. Ha seguito e deve continuamente aggiornarsi con corsi di psicologia. Spera con tutto il suo cuore che ogni persona che entra lì dentro troverà una soluzione. Se viene a sapere che uno dei pazienti si è suicidato, piange. Così è il Giappone. Quando la centrale nucleare di Fukushima è esplosa, servivano persone che andassero nel cuore del reattore per cercare di contenere il cataclisma in atto. Entrare lì dentro voleva dire morire subito dopo, forse pochi giorni o qualche settimana. È bastato che le autorità spiegassero il problema che alcuni giapponesi si sono presentati spontaneamente.
Provo a spiegare a Yae che non è colpa sua, che non può assorbire i problemi di tutte le persone che non stanno bene. Lei mi dice che lo sa, ma non riesce a non farsene carico. Il suo viso, giovane e pulito come quello di tutti i giapponesi, tradisce tratti malinconici, un’appena accennata ruga che le ragazze della sua età non hanno.
Me la immagino tornare a casa la sera tarda, due ore sui mezzi pubblici dopo una giornata a sentirli raccontare problemi di ogni tipo. Chiusa nella metropolitana che la sballotta sui sedili, ancora immersa nei suoi pensieri, magari nel fallimento di un paziente che non è guarito.
Mi racconta che non solo deve accogliere chi si presenta in clinica di persona, ma deve anche rispondere a chi chiama al telefono. In questo caso è ancora più difficile, perché non hai la persona di fronte, non c’è un medico che può aiutarla. Se la telefonata va bene, convince la persona a presentarsi in clinica, se va male potrebbe suicidarsi dopo pochi minuti. Lavora sotto ad un bombardamento continuo. Per me è difficile immaginarlo, in un Paese dove vedo tutto funzionare, tutti gentili e cordiali. Ma ogni società nasconde i suoi mostri, e in un Paese dove tutto e ognuno deve essere sempre perfetto, se non sei abbastanza forte vieni stritolato. Soccombi e vai in clinica, dove qualcuno si prende cura di te.
Yae, come tutti i giapponesi, ha pochissime ferie. Per lo più, riesce a fare qualche weekend lungo. Viaggiare in Europa è un sogno a cui in realtà non pensa seriamente.
Ci rivediamo la sera, in una izakaya (il pub giapponese) dove mangiamo e beviamo una Sapporo. Parliamo della bella giornata allo Shikotsuko. Intravedo intorno al suo viso un’aurea di malinconia. Domani prenderà un volo per Tokyo, e nella testa forse i problemi hanno già ripreso a turbinare.
Io invece avrò ancora diversi giorni di vacanza. Ma non insisto su questo tema, altrimenti dovrei chiederle scusa di questo, del mio privilegio di potere viaggiare più volte all’anno, e lei si scuserebbe per avere creato la situazione di imbarazzo. Allora mi trasformo un po’ in giapponese anch’io e certe cose le lascio sottointese, in un dialogo sempre più delicato. Domani Yae tornerà alla sua vita a Tokyo, io continuerò a girovagare per l’Hokkaido, mentre le acque dello Shikotsuko rimarranno lì, blu e increspate dal vento, ascoltando e disperdendo altre storie, altri discorsi, altre scuse.