Sono arrivato in Cambogia con un volo su Phnom Penh. Passeggio senza una destinazione precisa, mi fermo a parlare con i monaci nelle pagode. Un monaco va a prendere la chiave di una pagoda chiusa, l’apre apposta per me, rimaniamo seduti al cospetto del Budda mentre lui sistema le casse e accende una musica di sottofondo. Altre persone in giro mi fermano per parlare un po’ in inglese. Mi piace l’accoglienza Cambogiana. Continuo il viaggio e arrivo ad Angkor. Il complesso di templi mi rapisce all’istante, per la loro magnificenza, il loro fascino, la loro unicità, uno diverso dall’altro, con la sua geometria e la sua storia.
Angok Wat
L’Angkor Wat mi si presenta riflesso un laghetto con i fiori di loto appena spuntati. Da lontano la sua architettura lo potrebbe fare assomigliare ad una base di lancio di missili spaziali. Da vicino si scoprono i dettagli di quello che abbiamo ereditato dal regno dei Khmer. Abbandono l’Angkor Wat e mi dirigo al Bayon, forse il mio tempio preferito. Ancora prima di vederlo da vicino, emana un fascino magnetico, con la sua figura dalle mille sfaccettature.
Bayon
Le facce del Budda sono state scolpite su enormi blocchi di roccia poi alzati in alto in un puzzle impossibile, immaginando in che tempi e con che mezzi lo hanno costruito.
Ta Prohm
Il Ta Prohm invece è il più misterioso. Abbandonato nella piana, è stato inglobato dalla vegetazione. Le piante hanno abbracciato i muri, si sono infilate nelle crepe, hanno stretto l’opera umana in una morsa come un serpente che avvolte la sua preda. L’opera dell’uomo si è fusa con l’opera della natura in uno spettacolo surreale.
Lo shock di fronte a tale bellezza è molto. Ma c’è uno shock ancora più grande, stridente e fastidioso, che si materializza all’ombra di ogni tempio, in un esercito bambini tristi che elemosinano un dollaro, una penna o un altro regalo.
Non date soldi ai bambini. Non date regali ai bambini. Nel resto del paese mangiano e studiano. Non muoiono di fame. Lasciategli fare la loro vita. E se per qualche motivo vi sentite troppo ricchi al confronto dei paesi poveri, fate una donazione alla scuola, all’ospedale, ad una associazione, a chi volete, ma non ai bambini in strada. Non toglieteli dai loro giochi, dalla scuola, dalla loro infanzia che non c’è più. Piangono tra i templi, guadagnano in una giornata lo stipendio del padre in un mese. Il padre se ne guarderà bene dal toglierlo da quell’inferno per mandarlo a studiare per costruire un futuro. Le famiglie vicino ai templi avranno più soldi senza lavorare, aumenteranno li disparità, i problemi. Non è così che si aiuta un Paese povero.
Non date nemmeno la penna al bambino. Quando ne avrà venti andrà a venderle. Non le userà per scrivere. Andate alla scuola e portate lì le penne se volete.
Ai bambini regalate un sorriso.
Qualche turista prova a fare un gioco con loro. Mi unisco, e per un attimo quei bambini dimenticano il “dollar”. Ma dietro l’angolo c’è un autobus delle escursioni organizzate, dei turisti che non ci pensano, che se sentono sollevati nel morale nel porre il dollaro tra le dita del bambino, che gli sorride, ma dentro sta piangendo.
Dopo qualche giorno per me è troppo, ho raggiunto il limite. La mattina visito Angkor, il pomeriggio prendo una bicicletta e giro tra i villaggi nella campagna. Frotte di bambini vengono a salutarmi, a vedere chi è quella faccia strana che gira nel loro villaggio. Stanno benissimo, senza templi, senza turisti, senza dollari. I ragazzi più grandi vengono a chiedermi da dove vengo, perché sono lì, mi raccontano dei loro studi. Poi ci salutiamo, io ricco, loro poveri, entrambi con il sorriso.
Non date soldi ai bambini, né in Cambogia, né in Bolivia, né ovunque. Avranno tempo più grandi di lavorare e dovere pensare a come arrivare a fine mese. Ma per ora sono solo bambini. Lasciateli vivere.