La mia guesthouse a Saigon è un bordello. Nel vero senso della parola. E’ fine anno, io non ho prenotato nulla e tutte le pensioni sono piene. Giro con lo zaino in spalla nei vicoli diel quartiere Pham Ngu Lao. Alla fine trovo una stanza. Sotto c’è anche il “bar”. La stanza è angusta e tetra, senza finestre. Una lampadina penzola dal soffitto, un ventilatore storto è appoggiato per terra. Butto lo zaino ed esco. Quando torno la sera riconosco il bar. Una ragazza in abiti succinti mi chiama ad entrare.
“Come on, come on”. E io ci vado, ma solo perché la mia stanza è dentro lì. Le ragazze “lavorano” al bar e affittano una stanza ai piani superiori. Portano su clienti mentre io cerco di dormire con la musica che rimbomba dal piano terra. La sveglia suona quando il sole non è ancora sorto e nella pensione c’è finalmente un momento di pace. Prendo tutto e vado. Destinazione Mui Ne, sulla costa, un po’ più a nord. L’autobus si trascina fuori da Saigon divincolandosi goffamente nel groviglio di auto, carretti, camion e motorini che suonano i clacson. La statale poi corre attraverso la pianura, l’autobus invece cammina a malapena, arrancando in un traffico inesauribile.
Sono passate due ore, io ormai uscito dal torpore di una notte ancora in preda al fuso orario. Mi sveglio e penso al mio passaporto. Dov’è? Inizio a toccarmi le tasche. Continuo a cercare, anche se ho già intuito tutto: l’ho lasciato alla pensione/bordello di Saigon. Me l’hanno trattenuto alla reception e poi avranno pensato ad affari più importanti del turista italiano in viaggio. Devo scendere e tornare a recuperarlo. L’autista non parla inglese, e io non parlo vietnamita. I miei gesti sono chiari: devo tornare indietro. Vagli a spiegare che ci voglio andare da solo. Sono prigioniero sul pullman. Quando finalmente riesco a dipanare la questione l’autista frena e apre le porte. Scendo e osservo il bus ripartire sbuffando una nuvola nera. Lo osservo diventare sempre più piccolo fino a sparire in fondo alla strada. Chissà dove sono. Chissà chi sono. Sono perso da qualche parte nella pianura vietnamita, e senza passaporto. Rimango lì, in piedi, fermo, pensando al paradosso della situazione. Fosse successo nel mio primo viaggio, sarei in preda al panico. Invece ci rido sopra.
La soluzione, per magia, si presenta da sola. Un uomo magro e smunto accosta con il suo motorino / mototaxi. Mi porge il casco. Salto in sella e andiamo al villaggio di palafitte. Lui mi mostra l’unico edificio moderno per mollarmi lì. Neanche lui parla inglese, e io continuo a non parlare vietnamita. Ma ho imparato a dire “Xe but, Saigon”. Corriamo con il motorino in un malsano slalom tra le auto fino alla stazione di un minibus. Parte e si ferma subito. La gente sale e scende di continuo, portando cartelle della scuola, pacchi di varie dimensioni, ortaggi e polli vivi. Rientriamo a Saigon sgommando come una tartaruga. Il capolinea è da qualche parte in periferia. Esco dalla stazione, salto in sella ad un nuovo motorino, e riesco a farmi accompagnare alla stazione. Recupero il passaporto e il film riparte dall’inizio. Torno alla stazione e prendo un nuovo biglietto. Vai a spiegare alla ragazza dei biglietti che non sono un sosia di quello che è passato di lì la mattina. Sono sempre io, e vado sempre a Mui Ne. Questa volta posso anche dimostrare chi sono. Il traffico del pomeriggio è uguale a quello della mattina. La guida dice che ci vogliono tre ore per Mui Ne, ma noi ne impieghiamo sette. Per me tutto il giorno. Mi sono svegliato con il buio e arrivo con il buio. Le pensioni sono di nuovo tutte piene. Maledetti i russi che vanno a svernare sulla costa vietnamita. La soluzione è sempre la stessa. Mi fermo sul marciapiede e attendo gli eventi. Un ragazzetto si offre di portermi con il motorino. “Accetto solo se mi porti in una stanza in riva all’oceano per non più di 15 dollari”. A lui vanno 50 centesimi per la commissione. Mi trova la stanza e si congeda chiedendo se per caso vorrei anche una ragazza o della marjuana. Ma a me serve solo una cosa: una cena e una birra, che pulisca la mia gola dallo smog di una giornata intera “on the road”.